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o [o] escl. — per introdurre o rafforzare il vocativo: O d’ogni reverenza et d’onor degna [1 d 1n’n’i rever$nZa e dd on1r d%n’n’a] (Petrarca); O Figlio, o Tu cui genera L’Eterno, eterno seco [o f&l’l’o, o t2 kkui J$nera l et$rno, et$rno S%ko] (Manzoni); O patria mia, vedo le mura e gli archi [o p#trLa m&a, v%do le m2ra e l’l’ #rki] (Leopardi); T’amo, o pio bove [t #mo, o pio b0ve] (Carducci) — freq., oltre che in usi aulici e poetici, anche nel parlar familiare (più in passato che oggi, e più in Toscana che altrove); e questo, chiamando ad alta voce: o galantuomo! [o galantU0mo!]; o voi di casa! [o v1i di k#Sa!]; o rivolgendo il discorso con tono risoluto: o ragazzi, non esageriamo! [o rag#ZZi, non e@aJerL#mo!] — tutta senza radd. sint. la pn. tosc., per regolare continuaz. del lat. o; e così in genere anche nel resto d’It., salvo una qualche tendenza al radd. sint. in regioni dove l’o vocativo è fuori d’uso oppure sostituito da altra particella (per es. a a Roma: a sor Checco! [roman. a Sor k%kko!]), sicché può accadere di confonderlo, trovandolo scritto, con l’o disgiuntivo (lat. aut) — cfr. oh Dio